mercoledì 27 maggio 2015

Il Danno Risarcibile nella Legge Pinto


La Corte di Cassazione ha chiarito che il danno non patrimoniale subito può essere accertato mediante il ricorso a presunzioni e a fatti notori, e può essere liquidato equitativamente, a norma dell’art. 1226 cc

Infatti, poiché  le preoccupazioni, le tensioni e i disagi della persona fisica non sono facilmente e direttamente dimostrabili, possono essere desunte anche in via indiretta dalla indicazione delle circostanze di fatto del caso concreto (Cass. 24/10/2003 n. 16047).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno precisato che, allorquando venga accertata la violazione del termine ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve presumersi esistente, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa rivelarsi inesistente.

La Corte d'Appello di Napoli (13 dicembre 2001) ha provato a definire in termini concreti questo tipo di danno, affermando che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determina nel cittadino stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in genere nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale ai sensi del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del 2001, da liquidarsi in via equitativa.

In buona sostanza, una volta accertata la violazione, di regola deve  considerarsi in re ipsa la prova del relativo pregiudizio, nel senso che questo tipo di violazione comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto automaticamente un danno non patrimoniale in danno della parte processuale (Cass. 16/2/2005 n. 3118).

Pertanto, salvo casi particolari, il danno non patrimoniale deve essere liquidato ogni qualvolta vi sia stata una eccessiva durata del processo.

Questo perché l’equa riparazione riconosciuta dalla legge Pinto (L. 89/2001) è un diritto non al risarcimento del danno, ma un indennizzo: di conseguenza, rimane irrilevante ogni eventuale riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità (Cass. Sez. Un. 27/11/2003-26/01/2004 n. 1339).

Inoltre, ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, la parte privata ricorrente non deve provare il danno morale, trattandosi di conseguenze che normalmente si verificano secondo la normalità dei casi (Cass. 29/03-11/05/2004 n. 8896): una volta accertata la violazione del termine di ragionevole durata del processo, la parte che afferma di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza della eccessiva durata del processo, non è tenuta a fornire specifica prova dello stesso, poiché, secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il danno non patrimoniale (da identificarsi col patema d’animo, la sofferenza morale causate dall’esorbitante attesa della decisione, l’ansia, lo stress, il dispendio di tempo ed energie), a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente per effetto della violazione della durata ragionevole del processo, per cui deve ritenersi presente senza nessun bisogno di prova (Cass. 12/08/2005 n. 16885).

E’ chiaro, però, che il danno va allegato, cioè indicato, specificato, nel senso che è necessario almeno indicare che tipo di danno si è subito. Vediamo un esempio pratico, tratto da un ricorso per equa riparazione relativo ad un giudizio che aveva ad oggetto la violazione delle distanze legali, con effettivo pericolo di abbattimento del fabbricato:

Il giudizio presupposto del presente ricorso ha ad oggetto violazione delle distanze legali. Tale giudizio ha procurato notevoli danni alla ricorrente, sia sotto il profilo economico che morale, con conseguenti notevoli patimenti, oltre agli inevitabili e prolungati disagi causati al normale svolgimento della vita familiare: la particolare natura della causa, infatti, ha comportato non solo notevoli pregiudizi economici, ma soprattutto ansia e patema d’animo, derivanti dalla paura di perdere una considerevole parte dell’abitazione a causa del pericolo di parziale abbattimento o arretramento della stessa.

Per quanto riguarda la misura dell’indennizzo, l’art. 2 bis della legge Pinto, così come modificato dal DL 83/2012, stabilisce che il giudice può liquidare una somma di denaro compresa tra un minimo di 500,00 euro ed un massimo di 1.500,00 euro, per ciascun anno,  o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

La frazione di anno, quindi, viene indennizzata soltanto se è superiore ai sei mesi.

Il giudice determina l’indennizzo in base all’art. 2056 cc, tenendo conto dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione del termine ragionevole (cd giudizio presupposto); del comportamento del giudice e delle parti; della natura degli interessi coinvolti; del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, art. 2 bis, comunque, non può essere superiore al valore della causa o al valore del diritto accertato dal giudice: pertanto, l’indennizzo potrebbe essere anche inferiore a 500,00 euro.


Pertanto, se è stata chiesta l’equa riparazione per una causa durata 15 anni, il cui valore era pari a trecento euro, questo sarà il massimo indennizzo liquidabile in base alla riforma della Legge Pinto. 

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