La Corte di Cassazione ha chiarito che
il danno non patrimoniale subito può essere accertato mediante il ricorso a
presunzioni e a fatti notori, e può essere liquidato equitativamente, a norma
dell’art. 1226 cc
Infatti, poiché le preoccupazioni, le tensioni e i disagi
della persona fisica non sono facilmente e direttamente dimostrabili, possono essere
desunte anche in via indiretta dalla indicazione delle circostanze di fatto del
caso concreto (Cass. 24/10/2003 n. 16047).
Le Sezioni Unite della Suprema Corte,
conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno
precisato che, allorquando venga accertata la violazione del termine
ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve
presumersi esistente, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa
rivelarsi inesistente.
La Corte d'Appello di Napoli (13
dicembre 2001) ha provato a definire in termini concreti questo tipo di danno,
affermando che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio
determina nel cittadino stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in genere
nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva uno stato
d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale ai sensi
del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del 2001, da liquidarsi
in via equitativa.
In buona sostanza, una volta
accertata la violazione, di regola deve considerarsi in re ipsa la prova del relativo
pregiudizio, nel senso che questo tipo di violazione comporta, nella normalità
dei casi, anche la prova che essa ha prodotto automaticamente un danno non
patrimoniale in danno della parte processuale (Cass. 16/2/2005 n. 3118).
Pertanto, salvo casi particolari, il
danno non patrimoniale deve essere liquidato ogni qualvolta vi sia stata una
eccessiva durata del processo.
Questo perché l’equa riparazione
riconosciuta dalla legge Pinto (L. 89/2001) è un diritto non al risarcimento
del danno, ma un indennizzo: di conseguenza, rimane irrilevante ogni eventuale
riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità (Cass. Sez. Un.
27/11/2003-26/01/2004 n. 1339).
Inoltre, ai fini del riconoscimento
del diritto all’equa riparazione, la parte privata ricorrente non deve provare
il danno morale, trattandosi di conseguenze che normalmente si verificano
secondo la normalità dei casi (Cass. 29/03-11/05/2004 n. 8896): una volta
accertata la violazione del termine di ragionevole durata del processo, la
parte che afferma di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza della
eccessiva durata del processo, non è tenuta a fornire specifica prova dello
stesso, poiché, secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il danno non
patrimoniale (da identificarsi col patema d’animo, la sofferenza morale causate
dall’esorbitante attesa della decisione, l’ansia, lo stress, il dispendio di
tempo ed energie), a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente
per effetto della violazione della durata ragionevole del processo, per cui
deve ritenersi presente senza nessun bisogno di prova (Cass. 12/08/2005 n.
16885).
E’ chiaro, però, che il danno va
allegato, cioè indicato, specificato, nel senso che è necessario almeno
indicare che tipo di danno si è subito. Vediamo un esempio pratico, tratto da
un ricorso per equa riparazione relativo ad un giudizio che aveva ad oggetto la
violazione delle distanze legali, con effettivo pericolo di abbattimento del fabbricato:
Il giudizio presupposto del presente
ricorso ha ad oggetto violazione delle distanze legali. Tale giudizio ha
procurato notevoli danni alla ricorrente, sia sotto il profilo economico che
morale, con conseguenti notevoli patimenti, oltre agli inevitabili e prolungati
disagi causati al normale svolgimento della vita familiare: la particolare
natura della causa, infatti, ha comportato non solo notevoli pregiudizi economici,
ma soprattutto ansia e patema d’animo, derivanti dalla paura di perdere una
considerevole parte dell’abitazione a causa del pericolo di parziale
abbattimento o arretramento della stessa.
Per quanto riguarda la misura
dell’indennizzo, l’art. 2 bis della legge Pinto, così come modificato dal DL
83/2012, stabilisce che il giudice può liquidare una somma di denaro compresa
tra un minimo di 500,00 euro ed un massimo di 1.500,00 euro, per ciascun
anno, o frazione di anno superiore a sei
mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.
La frazione di anno, quindi, viene
indennizzata soltanto se è superiore ai sei mesi.
Il giudice determina l’indennizzo in
base all’art. 2056 cc, tenendo conto dell’esito del processo nel quale si è
verificata la violazione del termine ragionevole (cd giudizio presupposto); del
comportamento del giudice e delle parti; della natura degli interessi
coinvolti; del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in
relazione alle condizioni personali della parte.
La misura dell’indennizzo, anche in
deroga al comma 1, art. 2 bis, comunque, non può essere superiore al valore
della causa o al valore del diritto accertato dal giudice: pertanto,
l’indennizzo potrebbe essere anche inferiore a 500,00 euro.
Pertanto, se è stata chiesta l’equa
riparazione per una causa durata 15 anni, il cui valore era pari a trecento
euro, questo sarà il massimo indennizzo liquidabile in base alla riforma della
Legge Pinto.
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