giovedì 2 luglio 2015

Equa riparazione ed astensione degli avvocati dalle udienze.


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12447/2015, ha confermato un suo precedente orientamento, secondo il quale il rinvio delle udienze, dovuto alla astensione degli avvocati dall’attività di udienza, non può essere imputato all’organizzazione giudiziaria, quando si tratta di liquidare l’equa riparazione per l’eccessiva lungaggine di un processo.

Ciò comporta che il ritardo derivante da un rinvio, chiesto dal difensore che abbia aderito alla legittima astensione degli avvocati dalle udienze, non viene calcolato nel termine di durata irragionevole che va indennizzato.

Ricordiamo che la Legge Pinto prevede la liquidazione di una somma a titolo di indennizzo, e non di risarcimento.

Fra indennizzo e risarcimento c’è una bella differenza.

Infatti, mentre il risarcimento del danno deriva da atti e/o comportamenti illeciti o illegittimi, che prevedono una colpa da parte di un soggetto, l’indennizzo non deriva necessariamente da un atto illecito, e, nel caso del ricorso per equa riparazione, scaturisce semplicemente dalla lesione del diritto della persona alla definizione del processo in un termine ragionevole a causa di tutte le inefficienze dell’organizzazione giudiziaria, del sistema giustizia.

In queste inefficienze non rientra il ritardo di un processo dovuto alla astensione degli avvocati che aderiscono a manifestazioni di protesta indette dagli Ordini Professionali.

Tali ritardi sono imputabili a fattori esterni ed estranei all’organizzazione giudiziaria.

Il fatto di partecipare alla astensione dalle attività di udienza, infatti, è una scelta libera e consapevole del difensore, e le conseguenze derivanti da questa scelta, in sede di giudizio per equa riparazione, vanno addebitate, per così dire,  al cliente, nel senso che il ritardo scaturito dal rinvio causato dalla astensione dell’avvocato non verrà computato nel periodo di tempo di durata irragionevole del processo che va indennizzato.

Dovrebbe essere chiaro, però, per fare un esempio pratico, che se il giudice, a fronte del rinvio dovuto all’astensione proclamata dagli avvocati, rinvia la causa a tre anni per problemi relativi alla organizzazione del suo ufficio, gran parte di questo periodo dovrebbe essere addebitato all’apparato giudiziario.


Infatti, è vero che il rinvio non è stato provocato dal giudice, ma è pur vero che da una parte il giudice deve fare di tutto per non allungare eccessivamente i tempi del processo (art. 175 cpc), dall’altra parte, secondo una norma inapplicata, i rinvii da una udienza all’altra non dovrebbero superare i 15 giorni, a meno che non vi siano delle giustificate esigenze (art. 81 disposizioni di attuazione del codice civile). 

lunedì 8 giugno 2015

Legge Pinto e Processo Tributario

La Legge Pinto si applica ai processi tributari?

Nel caso di un processo tributario durato eccessivamente dinanzi alla Commissione Tributaria, si ha diritto all’equa riparazione?

Di regola no, non si ha diritto; tuttavia ci sono delle eccezioni.

Vediamo la disciplina nel dettaglio.

1) L’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo stabilisce che ogni persona ha diritto ad un processo concluso entro un termine ragionevole in materia civile e penale. Ciò significa, in primo luogo, che la Legge Pinto può essere applicata esclusivamente ai giudizi civili e penali (e amministrativi).  

2) L’art. 1 del Protocollo Addizionale CEDU, inoltre, stabilisce che la protezione della proprietà non deve pregiudicare il diritto degli Stati di richiedere il pagamento delle imposte e dei tributi. 

In parole povere, la tutela dei diritti patrimoniali delle persone non deve intaccare la potestà impositiva dello Stato, ossia l’autorità dello Stato sovrano di imporre tributi al cittadino contribuente, che deve sottostare a quella autorità.

In questi casi, in cui il giudizio riguarda un rapporto pubblicistico (e non civilistico) fra Stato sovrano che impone tributi al cittadino contribuente, la controversia tributaria non rientra nell’ambito dei diritti di carattere civilistico, ma è un vero e proprio contenzioso tributario di carattere pubblicistico, e quindi non è possibile chiedere l’equo indennizzo.

3) La Corte di Cassazione, con alcune recenti sentenze (Cass. n. 4282/2015; Cass. n. 4435/2015), ha ribadito che la disciplina dell’equa riparazione non è applicabile, appunto, ai giudizi in materia tributaria in cui si verte sulla potestà impositiva dello Stato, precisando che, in questi casi, il contenzioso tributario non rientra nella materia civile, anche se esso produce effetti patrimoniali nei confronti delle persone.

4) Invece, è possibile chiedere l’equa riparazione quando il procedimento tributario può essere assimilato a quello civile, nel senso che il suo oggetto non riguarda la potestà impositiva dello Stato, ma una pretesa di natura privatistica. 

Ad es., quando l’oggetto del processo riguarda il rimborso di somme dovute in virtù di qualche tributo di cui non si contesta l’esistenza, o un errore di calcolo, oppure quando il giudizio riguarda l’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza; in tutti questi casi, in cui non si mette in discussione la potestà dello Stato in relazione a quel determinato tributo, cioè la potestà dello Stato di emettere quel tributo, sussistono i presupposti per presentare un ricorso ai sensi della Legge n. 89/2001 (Legge Pinto) per chiedere l’equa riparazione.

5) La Corte di Cassazione, con la medesima sentenza (Cass. n. 4282/2015), ha chiarito che l’art. 6 della CEDU può essere applicato al processo tributario, e quindi si può avere diritto all’equo indennizzo in caso di eccessiva durata del processo, solo se la sanzione tributaria è assimilabile a quella penale per il suo carattere di afflittività, ossia quando è talmente grave a livello punitivo ed afflittivo da essere equiparata ad una sanzione penale.

La sanzione penale, infatti, è caratterizzata da una tale gravità da non essere minimamente paragonabile ad altri tipi di sanzioni, anche tributarie. Solo la sanzione penale, infatti, incide sul piano della dignità della persona condannata (Cass. 13322/2012).


6) Quando, infine, l’oggetto del processo tributario riguarda la fondatezza o meno dell’imposizione tributaria, quando cioè si contesta la possibilità per lo Stato di imporre un tributo, allora ci troviamo di fronte ad una situazione regolata da norme di diritto pubblico, ed a quel processo non è applicabile la disciplina dell’equa riparazione. 

Poiché tali controversie non si possono in nessun modo ricondurre a vertenze di tipo civilistico, è preclusa la possibilità di agire ai fini dell’equa riparazione. 

domenica 7 giugno 2015

Cause Lumaca e Legge Pinto

La tua causa è una lumaca?

Il tuo processo dura da una vita?

Forse non lo sai, ma puoi avere un risarcimento per questo!

C’è una legge  che ti dà la possibilità di ottenere un risarcimento del danno se la tua causa è durata troppo a lungo: è la Legge Pinto (n. 89/2001).

Secondo questa legge, puoi avere  diritto ad un risarcimento quando la durata del tuo processo (civile, penale o amministrativo) ha superato i tre anni: per la precisione, la durata ragionevole si considera rispettata quando un giudizio non abbia superato la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado (appello), e di un anno in Cassazione.

In ogni caso, il termine ragionevole si considera comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile (ossia non più soggetto ad impugnazione, cioè ad appello o ricorso per cassazione) nel termine di sei anni.

Il ricorso deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla conclusione della causa durata eccessivamente: quest'ultima deve essere definita, ossia conclusa con provvedimento passato in giudicato.

Per proporre il ricorso per equa riparazione è necessario attendere la fine della causa.

La liquidazione del danno non patrimoniale  (l’equa riparazione), prescinde dall’esito della causa durata eccessivamente: ciò significa che per avere diritto al risarcimento del danno non è necessario che tu abbia vinto la causa che è durata troppo a lungo.

Il ricorso, pertanto, può essere proposto anche da chi ha perso la causa, ma solo quando non sia stato condannato per  mala fede o colpa grave.

Per usare un linguaggio non tecnico, e semplificando al massimo, possiamo dire che la mala fede o la colpa grave sussistono quando una persona ha partecipato ad un processo sapendo in partenza di avere torto.

Il ricorso di equa riparazione, per i procedimenti svoltisi in un Ufficio Giudiziario del distretto di Corte d’Appello di Salerno, si propone alla Corte d’Appello di Napoli.

Ad esempio: una causa è durata 15 anni nel Tribunale di Vallo della Lucania o nel Tribunale di Nocera Inferiore.

I Tribunali di Vallo della Lucania di Nocera Inferiore fanno parte del distretto di Corte d’Appello di Salerno.

Pertanto, il ricorso per equa riparazione va depositato presso la Corte d’Appello di Napoli.  

Se vuoi saperne di più, contattami ai miei recapiti o scarica l’opuscolo gratuito Lasciando la tua email nel riquadro in alto a destra. 


venerdì 5 giugno 2015

Legge Pinto e Contumacia



Sempre secondo la Cassazione, il contumace ha diritto al riconoscimento dell’equa riparazione, in quanto la scelta della contumacia può derivare dalla più varie ragioni, anche diverse dall’indifferenza per il risultato e per i tempi della controversia, come, ad esempio, la convinzione della totale plausibilità o, al contrario, della assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in giudizio (Cass. SS. UU. 14/01/2014 n. 585).

Quindi, anche il contumace può subire lo stesso disagio psicologico sofferto da chi ha partecipato attivamente al processo, e di conseguenza  ha il diritto di ottenere, in tempi ragionevoli, la conclusione del giudizio.


Infatti, da un lato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non pone nessun limite al diritto alla durata ragionevole del processo, attribuendo tale diritto ad ogni persona, dall’altro lato la legge 89/2001 (Legge Pinto) non condiziona la liquidazione dell’indennizzo alla partecipazione attiva nel processo, ma assicura l’indennizzo a chi ha subito un danno.

mercoledì 3 giugno 2015

Legge Pinto, Condominio e Condomini


Il condominio è privo di personalità giuridica, in quanto si tratta di un ente di gestione delle cose comuni.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n. 19663/2014) hanno risolto la controversa questione relativa alla possibilità, per il Condominio, di chiedere l’equa riparazione.

Vediamo, in sintesi, i principi stabiliti dalla Suprema Corte in materia.

1) Secondo la Legge Pinto e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, solo coloro che abbiano partecipato attivamente al processo durato eccessivamente possono chiedere l’equo indennizzo, in quanto solo le parti costituite nel processo, o quelle che ne hanno avuto conoscenza, possono subire il patema d’animo e la sofferenza fisica causata dalla eccessiva durata di un giudizio.

2) I condomini che non si sono costituiti, ossia che non sono intervenuti nel processo intentato dal Condominio, e che sono quindi rimasti estranei ad esso, non sono tecnicamente parti e quindi non hanno diritto all’indennizzo.

3) Nel caso in cui il Condominio sia stato parte in un giudizio durato eccessivamente, spetta all’amministratore, appositamente autorizzato dall’assemblea, agire in giudizio per chiedere l’equa riparazione.

4) Naturalmente, il condomino intervenuto nel processo in cui era parte il Condominio, in quanto parte in causa, può chiedere l’equo indennizzo.

La Corte di Cassazione era stata chiamata a decidere la seguente questione:

L’amministratore di un Condominio inizia una causa.

Due condomini intervengono nel processo qualche anno dopo il suo inizio.

Alla fine del processo (durato eccessivamente) i due condomini presentano un ricorso per equa riparazione.


La Corte d’Appello, in base ai principi che abbiamo esposto sopra, ha riconosciuto ai due condomini l’indennizzo a partire dalla loro costituzione in giudizio. 

lunedì 1 giugno 2015

Legge Pinto e Persone Giuridiche Pubbliche




La Corte di Cassazione ha ritenuto che gli enti pubblici, invece, non abbiano diritto all’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo (Sent. n. 21326/2012): 

il giudice nazionale, per quanto possibile, deve interpretare ed applicare il diritto interno conformemente alla Convenzione ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Cass. SS.UU. n. 1340/04; Cass. n. 21403/05; Cass. n. 13657/07; Cass. n. 2371/11); 


ebbene, l'art. 34 della CEDU stabilisce che non hanno diritto all’equa riparazione le organizzazioni non governative, ossia gli enti pubblici, ed in generale ogni ente o articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico potere.

sabato 30 maggio 2015

Legge Pinto. Le Persone Giuridiche hanno diritto all'Equa Riparazione?

Secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i principi in materia di equa riparazione a tutela delle persone fisiche valgono anche per le persone giuridiche, senza che esse siano tenute a provare di aver subito un danno.

E’ chiaro però, che, anche per le persone giuridiche, il danno va allegato, cioè indicato, specificato, nel senso che è necessario almeno descrivere che tipo di danno si è subito.

Secondo una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 5560/2015), anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è conseguenza normale, anche se non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, così come avviene alle persone fisiche.


Sicché, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che, in quel caso specifico, non sussistano circostanze particolari che escludano l’esistenza del danno (Cass. n. 25730/2011; Cass. n. 13986/2013).