martedì 26 maggio 2015

La liquidazione dell'indennizzo

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’azione tendente ad ottenere l’equa riparazione è di natura indennitaria e non risarcitoria.

Ciò significa che il diritto all'equa riparazione non richiede né l’accertamento di un illecito né l’esistenza della colpa da parte del giudice che ha gestito un processo durato eccessivamente: esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che testualmente recita: Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole …

Inoltre, per chi volesse approfondire, l’indennizzo liquidato per il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo si distacca dallo schema del risarcimento da fatto illecito, e deve essere correttamente ricondotto nell’ambito delle fattispecie indennitarie compensative di danni prodotti nell’esercizio di attività lecite (Cass. 18/3/2003 n. 3973).

Dall’esame delle pronunce della giurisprudenza di legittimità, emerge una responsabilità di tipo oggettivo del Ministero resistente, il quale ha violato il termine ragionevole di durata del procedimento.

In sostanza, per attribuire tale forma di responsabilità al Ministero, non occorre provarne la colpa ex art. 2043 cc, ma è sufficiente provare il dato oggettivo del tempo in eccesso trascorso dall’inizio del procedimento.

Volendo definire la responsabilità oggettiva in termini molto semplici, possiamo dire che essa sussiste in quei casi  in cui un soggetto può essere responsabile di un fatto illecito, anche se non lo ha voluto compiere volontariamente o lo ha commesso per colpa (imprudenza, negligenza).

Il presupposto della responsabilità del Ministero resistente risiede proprio nella violazione del termine di durata del procedimento, che non è rigidamente predeterminata, ma va desunta anche con ricorso ai criteri indicati nell’art. 2 L. 89/2001: comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla definizione del processo (ad es., CTU).

Infatti, anche le cause complesse e quelle in cui le parti abbiano tenuto un comportamento defatigatorio (che ha contribuito volontariamente ad allungare il processo) soggiacciono alla norma che ne impone la definizione in un tempo ragionevole, in quanto, secondo un principio enunciato dalla Cassazione a Sezioni Unite, il giudice deve fare fronte alla complessità del caso con un più risoluto ed incisivo impegno, ed al comportamento defatigatorio delle parti con l'attivazione dei rimedi all'uopo previsti dal codice di procedura civile.

Dunque, il giudice, nel verificare  l’esistenza del diritto all’equa riparazione, deve soltanto accertare che vi sia stata la eccessiva lungaggine processuale; in aggiunta, si deve tener conto dei criteri indicati nell'art. 2 (comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla definizione del processo), senza peraltro eliminare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass. n. 8600/2005; Cass. SS. UU., n. 1338 del 2004).

Secondo una pronuncia un po’ datata della Corte appello Firenze (25 gennaio 2002), un rinvio ragionevole, in un processo, non dovrebbe superare i tre mesi.

A proposito dei rinvii che, nell’ambito di un processo, siano stati chiesti dalle parti, è necessario evidenziare che, in tema di valutazione della ragionevole durata del processo, non tutto il lasso di tempo intercorso tra una udienza e l’altra può essere imputato al comportamento della parte che abbia chiesto il rinvio, dovendo il giudice adito in sede di equa riparazione verificare se l’entità del rinvio sia ascrivibile anche a concorrenti cause dell’organizzazione giudiziaria (Cass. 30/03/2005 n. 6713; Cass. 7/2/2004 n. 6856).

Per la precisione, ai fini dell'accertamento della durata ragionevole del processo, a fronte di una cospicua serie di rinvii chiesti dalla parte e disposti dal giudice, si deve distinguere tra tempi addebitabili alla parti e tempi addebitabili allo Stato, individuando la durata irragionevole comunque ascrivibile a quest'ultimo, sopratutto quando l'intervallo fra le udienze sia considerevole (Cass. 20233/2008).


Quindi, se una parte ha chiesto un breve rinvio di due mesi per ripetere una notifica non andata a buon fine, ed il giudice rinvia la causa a tre anni, questo periodo eccessivo non può essere attribuito alla parte, bensì allo Stato.  

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