giovedì 2 luglio 2015

Equa riparazione ed astensione degli avvocati dalle udienze.


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12447/2015, ha confermato un suo precedente orientamento, secondo il quale il rinvio delle udienze, dovuto alla astensione degli avvocati dall’attività di udienza, non può essere imputato all’organizzazione giudiziaria, quando si tratta di liquidare l’equa riparazione per l’eccessiva lungaggine di un processo.

Ciò comporta che il ritardo derivante da un rinvio, chiesto dal difensore che abbia aderito alla legittima astensione degli avvocati dalle udienze, non viene calcolato nel termine di durata irragionevole che va indennizzato.

Ricordiamo che la Legge Pinto prevede la liquidazione di una somma a titolo di indennizzo, e non di risarcimento.

Fra indennizzo e risarcimento c’è una bella differenza.

Infatti, mentre il risarcimento del danno deriva da atti e/o comportamenti illeciti o illegittimi, che prevedono una colpa da parte di un soggetto, l’indennizzo non deriva necessariamente da un atto illecito, e, nel caso del ricorso per equa riparazione, scaturisce semplicemente dalla lesione del diritto della persona alla definizione del processo in un termine ragionevole a causa di tutte le inefficienze dell’organizzazione giudiziaria, del sistema giustizia.

In queste inefficienze non rientra il ritardo di un processo dovuto alla astensione degli avvocati che aderiscono a manifestazioni di protesta indette dagli Ordini Professionali.

Tali ritardi sono imputabili a fattori esterni ed estranei all’organizzazione giudiziaria.

Il fatto di partecipare alla astensione dalle attività di udienza, infatti, è una scelta libera e consapevole del difensore, e le conseguenze derivanti da questa scelta, in sede di giudizio per equa riparazione, vanno addebitate, per così dire,  al cliente, nel senso che il ritardo scaturito dal rinvio causato dalla astensione dell’avvocato non verrà computato nel periodo di tempo di durata irragionevole del processo che va indennizzato.

Dovrebbe essere chiaro, però, per fare un esempio pratico, che se il giudice, a fronte del rinvio dovuto all’astensione proclamata dagli avvocati, rinvia la causa a tre anni per problemi relativi alla organizzazione del suo ufficio, gran parte di questo periodo dovrebbe essere addebitato all’apparato giudiziario.


Infatti, è vero che il rinvio non è stato provocato dal giudice, ma è pur vero che da una parte il giudice deve fare di tutto per non allungare eccessivamente i tempi del processo (art. 175 cpc), dall’altra parte, secondo una norma inapplicata, i rinvii da una udienza all’altra non dovrebbero superare i 15 giorni, a meno che non vi siano delle giustificate esigenze (art. 81 disposizioni di attuazione del codice civile). 

lunedì 8 giugno 2015

Legge Pinto e Processo Tributario

La Legge Pinto si applica ai processi tributari?

Nel caso di un processo tributario durato eccessivamente dinanzi alla Commissione Tributaria, si ha diritto all’equa riparazione?

Di regola no, non si ha diritto; tuttavia ci sono delle eccezioni.

Vediamo la disciplina nel dettaglio.

1) L’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo stabilisce che ogni persona ha diritto ad un processo concluso entro un termine ragionevole in materia civile e penale. Ciò significa, in primo luogo, che la Legge Pinto può essere applicata esclusivamente ai giudizi civili e penali (e amministrativi).  

2) L’art. 1 del Protocollo Addizionale CEDU, inoltre, stabilisce che la protezione della proprietà non deve pregiudicare il diritto degli Stati di richiedere il pagamento delle imposte e dei tributi. 

In parole povere, la tutela dei diritti patrimoniali delle persone non deve intaccare la potestà impositiva dello Stato, ossia l’autorità dello Stato sovrano di imporre tributi al cittadino contribuente, che deve sottostare a quella autorità.

In questi casi, in cui il giudizio riguarda un rapporto pubblicistico (e non civilistico) fra Stato sovrano che impone tributi al cittadino contribuente, la controversia tributaria non rientra nell’ambito dei diritti di carattere civilistico, ma è un vero e proprio contenzioso tributario di carattere pubblicistico, e quindi non è possibile chiedere l’equo indennizzo.

3) La Corte di Cassazione, con alcune recenti sentenze (Cass. n. 4282/2015; Cass. n. 4435/2015), ha ribadito che la disciplina dell’equa riparazione non è applicabile, appunto, ai giudizi in materia tributaria in cui si verte sulla potestà impositiva dello Stato, precisando che, in questi casi, il contenzioso tributario non rientra nella materia civile, anche se esso produce effetti patrimoniali nei confronti delle persone.

4) Invece, è possibile chiedere l’equa riparazione quando il procedimento tributario può essere assimilato a quello civile, nel senso che il suo oggetto non riguarda la potestà impositiva dello Stato, ma una pretesa di natura privatistica. 

Ad es., quando l’oggetto del processo riguarda il rimborso di somme dovute in virtù di qualche tributo di cui non si contesta l’esistenza, o un errore di calcolo, oppure quando il giudizio riguarda l’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza; in tutti questi casi, in cui non si mette in discussione la potestà dello Stato in relazione a quel determinato tributo, cioè la potestà dello Stato di emettere quel tributo, sussistono i presupposti per presentare un ricorso ai sensi della Legge n. 89/2001 (Legge Pinto) per chiedere l’equa riparazione.

5) La Corte di Cassazione, con la medesima sentenza (Cass. n. 4282/2015), ha chiarito che l’art. 6 della CEDU può essere applicato al processo tributario, e quindi si può avere diritto all’equo indennizzo in caso di eccessiva durata del processo, solo se la sanzione tributaria è assimilabile a quella penale per il suo carattere di afflittività, ossia quando è talmente grave a livello punitivo ed afflittivo da essere equiparata ad una sanzione penale.

La sanzione penale, infatti, è caratterizzata da una tale gravità da non essere minimamente paragonabile ad altri tipi di sanzioni, anche tributarie. Solo la sanzione penale, infatti, incide sul piano della dignità della persona condannata (Cass. 13322/2012).


6) Quando, infine, l’oggetto del processo tributario riguarda la fondatezza o meno dell’imposizione tributaria, quando cioè si contesta la possibilità per lo Stato di imporre un tributo, allora ci troviamo di fronte ad una situazione regolata da norme di diritto pubblico, ed a quel processo non è applicabile la disciplina dell’equa riparazione. 

Poiché tali controversie non si possono in nessun modo ricondurre a vertenze di tipo civilistico, è preclusa la possibilità di agire ai fini dell’equa riparazione. 

domenica 7 giugno 2015

Cause Lumaca e Legge Pinto

La tua causa è una lumaca?

Il tuo processo dura da una vita?

Forse non lo sai, ma puoi avere un risarcimento per questo!

C’è una legge  che ti dà la possibilità di ottenere un risarcimento del danno se la tua causa è durata troppo a lungo: è la Legge Pinto (n. 89/2001).

Secondo questa legge, puoi avere  diritto ad un risarcimento quando la durata del tuo processo (civile, penale o amministrativo) ha superato i tre anni: per la precisione, la durata ragionevole si considera rispettata quando un giudizio non abbia superato la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado (appello), e di un anno in Cassazione.

In ogni caso, il termine ragionevole si considera comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile (ossia non più soggetto ad impugnazione, cioè ad appello o ricorso per cassazione) nel termine di sei anni.

Il ricorso deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla conclusione della causa durata eccessivamente: quest'ultima deve essere definita, ossia conclusa con provvedimento passato in giudicato.

Per proporre il ricorso per equa riparazione è necessario attendere la fine della causa.

La liquidazione del danno non patrimoniale  (l’equa riparazione), prescinde dall’esito della causa durata eccessivamente: ciò significa che per avere diritto al risarcimento del danno non è necessario che tu abbia vinto la causa che è durata troppo a lungo.

Il ricorso, pertanto, può essere proposto anche da chi ha perso la causa, ma solo quando non sia stato condannato per  mala fede o colpa grave.

Per usare un linguaggio non tecnico, e semplificando al massimo, possiamo dire che la mala fede o la colpa grave sussistono quando una persona ha partecipato ad un processo sapendo in partenza di avere torto.

Il ricorso di equa riparazione, per i procedimenti svoltisi in un Ufficio Giudiziario del distretto di Corte d’Appello di Salerno, si propone alla Corte d’Appello di Napoli.

Ad esempio: una causa è durata 15 anni nel Tribunale di Vallo della Lucania o nel Tribunale di Nocera Inferiore.

I Tribunali di Vallo della Lucania di Nocera Inferiore fanno parte del distretto di Corte d’Appello di Salerno.

Pertanto, il ricorso per equa riparazione va depositato presso la Corte d’Appello di Napoli.  

Se vuoi saperne di più, contattami ai miei recapiti o scarica l’opuscolo gratuito Lasciando la tua email nel riquadro in alto a destra. 


venerdì 5 giugno 2015

Legge Pinto e Contumacia



Sempre secondo la Cassazione, il contumace ha diritto al riconoscimento dell’equa riparazione, in quanto la scelta della contumacia può derivare dalla più varie ragioni, anche diverse dall’indifferenza per il risultato e per i tempi della controversia, come, ad esempio, la convinzione della totale plausibilità o, al contrario, della assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in giudizio (Cass. SS. UU. 14/01/2014 n. 585).

Quindi, anche il contumace può subire lo stesso disagio psicologico sofferto da chi ha partecipato attivamente al processo, e di conseguenza  ha il diritto di ottenere, in tempi ragionevoli, la conclusione del giudizio.


Infatti, da un lato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non pone nessun limite al diritto alla durata ragionevole del processo, attribuendo tale diritto ad ogni persona, dall’altro lato la legge 89/2001 (Legge Pinto) non condiziona la liquidazione dell’indennizzo alla partecipazione attiva nel processo, ma assicura l’indennizzo a chi ha subito un danno.

mercoledì 3 giugno 2015

Legge Pinto, Condominio e Condomini


Il condominio è privo di personalità giuridica, in quanto si tratta di un ente di gestione delle cose comuni.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n. 19663/2014) hanno risolto la controversa questione relativa alla possibilità, per il Condominio, di chiedere l’equa riparazione.

Vediamo, in sintesi, i principi stabiliti dalla Suprema Corte in materia.

1) Secondo la Legge Pinto e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, solo coloro che abbiano partecipato attivamente al processo durato eccessivamente possono chiedere l’equo indennizzo, in quanto solo le parti costituite nel processo, o quelle che ne hanno avuto conoscenza, possono subire il patema d’animo e la sofferenza fisica causata dalla eccessiva durata di un giudizio.

2) I condomini che non si sono costituiti, ossia che non sono intervenuti nel processo intentato dal Condominio, e che sono quindi rimasti estranei ad esso, non sono tecnicamente parti e quindi non hanno diritto all’indennizzo.

3) Nel caso in cui il Condominio sia stato parte in un giudizio durato eccessivamente, spetta all’amministratore, appositamente autorizzato dall’assemblea, agire in giudizio per chiedere l’equa riparazione.

4) Naturalmente, il condomino intervenuto nel processo in cui era parte il Condominio, in quanto parte in causa, può chiedere l’equo indennizzo.

La Corte di Cassazione era stata chiamata a decidere la seguente questione:

L’amministratore di un Condominio inizia una causa.

Due condomini intervengono nel processo qualche anno dopo il suo inizio.

Alla fine del processo (durato eccessivamente) i due condomini presentano un ricorso per equa riparazione.


La Corte d’Appello, in base ai principi che abbiamo esposto sopra, ha riconosciuto ai due condomini l’indennizzo a partire dalla loro costituzione in giudizio. 

lunedì 1 giugno 2015

Legge Pinto e Persone Giuridiche Pubbliche




La Corte di Cassazione ha ritenuto che gli enti pubblici, invece, non abbiano diritto all’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo (Sent. n. 21326/2012): 

il giudice nazionale, per quanto possibile, deve interpretare ed applicare il diritto interno conformemente alla Convenzione ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Cass. SS.UU. n. 1340/04; Cass. n. 21403/05; Cass. n. 13657/07; Cass. n. 2371/11); 


ebbene, l'art. 34 della CEDU stabilisce che non hanno diritto all’equa riparazione le organizzazioni non governative, ossia gli enti pubblici, ed in generale ogni ente o articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico potere.

sabato 30 maggio 2015

Legge Pinto. Le Persone Giuridiche hanno diritto all'Equa Riparazione?

Secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i principi in materia di equa riparazione a tutela delle persone fisiche valgono anche per le persone giuridiche, senza che esse siano tenute a provare di aver subito un danno.

E’ chiaro però, che, anche per le persone giuridiche, il danno va allegato, cioè indicato, specificato, nel senso che è necessario almeno descrivere che tipo di danno si è subito.

Secondo una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 5560/2015), anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è conseguenza normale, anche se non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, così come avviene alle persone fisiche.


Sicché, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che, in quel caso specifico, non sussistano circostanze particolari che escludano l’esistenza del danno (Cass. n. 25730/2011; Cass. n. 13986/2013). 

L'opposizione

Contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione può essere proposta opposizione nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento, ovvero della sua notificazione.

L’opposizione si propone con ricorso alla Corte d’Appello che ha emesso il decreto. 

La Corte provvede in camera di consiglio, e del collegio non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato.

L’opposizione non sospende l’esecuzione del provvedimento, ma il collegio, se ricorrono gravi motivi, può sospenderne l’efficacia esecutiva.

La Corte, entro quattro mesi dal deposito del ricorso in opposizione, pronuncia decreto impugnabile per cassazione, immediatamente esecutivo.

Con il decreto che definisce il giudizio (sia nella prima fase che in quella, eventuale, della opposizione) il giudice, se la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento di una somma di denaro, da 1.000,00 a 10.000,00 euro in favore della Cassa delle Ammende.


venerdì 29 maggio 2015

Il Procedimento di Equa Riparazione

La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al Presidente della Corte d’Appello in base alle indicazioni contenute nella tabella n. 1, alla pagina 3.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con ordinanza n. 6306 del 16/03/2010, ha precisato che la competenza deve essere determinata con riguardo al giudice di merito dinanzi al quale il procedimento è iniziato. Dopo la riforma del 2012, come si vedrà più avanti, non è più possibile proporre ricorso durante la pendenza del procedimento presupposto: cioè, se la causa che dura da molti anni è ancora in corso, non si può presentare il ricorso di equa riparazione.

Il ricorso va proposto nei confronti: 

1)      Del Ministero della Giustizia, quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario;

2)      Del Ministero della Difesa, quando si tratta di procedimenti del giudice militare;

3)      Del Ministro dell’Economia e delle Finanze, negli altri casi (es. TAR).

Al ricorso devono essere allegati i seguenti atti in copia autentica:

1)      L’atto introduttivo del processo presupposto (atto di citazione o ricorso), tutte le comparse e le memorie successive (comparsa di costituzione e risposta, memorie istruttorie, conclusionali, memorie di replica);

2)      I verbali di causa ed i provvedimenti del giudice (ad es., le comunicazioni dei rinvii d’ufficio);

3)      Il provvedimento che ha definito il giudizio (Sentenza, decreto).

E’ consigliabile, anche se non richiesto, allegare la copia del frontespizio del fascicolo d’ufficio, per una maggiore completezza, in quanto questo può essere utile al magistrato per riassumere e valutare, in un solo colpo d’occhio, l’intero processo.

Come si vede, mentre prima della riforma del 2012 gli atti del processo presupposto potevano essere allegati in copia semplice, ora è necessaria la copia autentica degli stessi (in parole povere … bisogna pagare le marche da bollo!!!).

Il Presidente della Corte d’Appello, o il magistrato designato, provvede sulla domanda di equa riparazione con decreto motivato.

Il decreto deve essere emesso entro trenta giorni dal deposito del ricorso. A seguito della riforma del 2012, la causa non viene più decisa dal collegio, ma da un giudice singolo.

Se il giudice ritiene che la domanda non sia sufficientemente giustificata, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a provvedere all’integrazione della prova.

Se il ricorrente non risponde all’invito o non ritira il ricorso, oppure se la domanda non è accoglibile, il giudice la rigetta con decreto motivato.

Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all’amministrazione (contro cui è stata proposta la domanda) di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando, in mancanza, la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento.

Se il ricorso è totalmente o parzialmente respinto, la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione nel temine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento (mediante deposito dell’atto in cancelleria), o dalla sua notificazione.

L’erogazione degli indennizzi avviene nei limiti delle risorse disponibili.

Il ricorso deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento durato eccessivamente è divenuta definitiva, ossia non più impugnabile.

Da questo momento inizia a decorrere il termine di sei mesi di cui all’art. 4 L. 89/2001 entro il quale può essere validamente proposto il ricorso ex legge Pinto.

La Corte di Cassazione (Sent. N. 5895/2009; sent. 22242/2010) ha stabilito che la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (i 31 giorni dal 1° al 31 agosto) deve essere applicata anche al suddetto termine di sei mesi di cui all’art. 4 della cd legge Pinto.

Quindi, se il termine di sei mesi per proporre il ricorso Pinto cade anche nel mese di agosto, si allunga di un ulteriore mese.

Il ricorso ed il decreto che accoglie la domanda di equa riparazione vanno notificati, in copia autentica, al soggetto nei cui confronti la domanda è proposta,  presso il competente ufficio dell’Avvocatura.

La notifica deve essere eseguita nel termine di trenta giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento (decreto di accoglimento). 

Se la notifica non viene effettuata nel suddetto termine, il decreto diviene inefficace e la domanda di equa riparazione non può essere più riproposta.

La notifica del ricorso e del decreto comporta acquiescenza al decreto da parte del ricorrente e, pertanto, rende improponibile l’opposizione. 


Il decreto che accoglie la domanda viene comunicato al procuratore generale della Corte dei Conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati al procedimento.

giovedì 28 maggio 2015

Casi in cui non viene riconosciuto l'indennizzo


La liquidazione del danno (equa riparazione), soprattutto non patrimoniale, prescinde dall'esito della causa di merito in cui vi è stata violazione del termine ragionevole. Non è necessario, quindi, aver vinto la causa durata eccessivamente per aver diritto alla liquidazione dell’indennizzo.

Il ricorso, pertanto, può essere proposto anche dalla parte soccombente, ma solo quando quest'ultima non sia stata condannata ai sensi dell'art. 96 del codice di procedura civile, ossia nel caso di  responsabilità aggravata (se ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave).

L’equo indennizzo, inoltre, non viene riconosciuto:

-          Nel caso previsto dall’art. 91, comma 1, cpc, ossia nei confronti della parte che, senza giustificato motivo, ha rifiutato la proposta di pagamento in sede conciliativa quando la domanda è accolta dal giudice in misura non superiore a tale proposta;

-          Nel caso di cui all’art. 13, comma1, DL 4/2010 n. 28, ossia nei confronti della parte che, in fase di mediazione subisca dal giudice i provvedimenti sulle spese per aver rifiutato la proposta di conciliazione quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta;

-          Nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a comportamenti dilatori della parte, ossia quando l’imputato compie delle azioni che ritardano il processo per beneficiare della prescrizione;

-          Quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di durata dei singoli gradi di giudizio di cui all’art. 2 bis della legga 89/01, ossia tre anni in primo grado, due anni in secondo grado, un anno nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione;


-          Nei confronti della parte che abbia abusato dei suoi poteri processuali, provocando un allungamento ingiustificato dei termini di durata del processo.

mercoledì 27 maggio 2015

Il Danno Risarcibile nella Legge Pinto


La Corte di Cassazione ha chiarito che il danno non patrimoniale subito può essere accertato mediante il ricorso a presunzioni e a fatti notori, e può essere liquidato equitativamente, a norma dell’art. 1226 cc

Infatti, poiché  le preoccupazioni, le tensioni e i disagi della persona fisica non sono facilmente e direttamente dimostrabili, possono essere desunte anche in via indiretta dalla indicazione delle circostanze di fatto del caso concreto (Cass. 24/10/2003 n. 16047).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno precisato che, allorquando venga accertata la violazione del termine ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve presumersi esistente, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa rivelarsi inesistente.

La Corte d'Appello di Napoli (13 dicembre 2001) ha provato a definire in termini concreti questo tipo di danno, affermando che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determina nel cittadino stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in genere nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale ai sensi del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del 2001, da liquidarsi in via equitativa.

In buona sostanza, una volta accertata la violazione, di regola deve  considerarsi in re ipsa la prova del relativo pregiudizio, nel senso che questo tipo di violazione comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto automaticamente un danno non patrimoniale in danno della parte processuale (Cass. 16/2/2005 n. 3118).

Pertanto, salvo casi particolari, il danno non patrimoniale deve essere liquidato ogni qualvolta vi sia stata una eccessiva durata del processo.

Questo perché l’equa riparazione riconosciuta dalla legge Pinto (L. 89/2001) è un diritto non al risarcimento del danno, ma un indennizzo: di conseguenza, rimane irrilevante ogni eventuale riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità (Cass. Sez. Un. 27/11/2003-26/01/2004 n. 1339).

Inoltre, ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, la parte privata ricorrente non deve provare il danno morale, trattandosi di conseguenze che normalmente si verificano secondo la normalità dei casi (Cass. 29/03-11/05/2004 n. 8896): una volta accertata la violazione del termine di ragionevole durata del processo, la parte che afferma di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza della eccessiva durata del processo, non è tenuta a fornire specifica prova dello stesso, poiché, secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il danno non patrimoniale (da identificarsi col patema d’animo, la sofferenza morale causate dall’esorbitante attesa della decisione, l’ansia, lo stress, il dispendio di tempo ed energie), a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente per effetto della violazione della durata ragionevole del processo, per cui deve ritenersi presente senza nessun bisogno di prova (Cass. 12/08/2005 n. 16885).

E’ chiaro, però, che il danno va allegato, cioè indicato, specificato, nel senso che è necessario almeno indicare che tipo di danno si è subito. Vediamo un esempio pratico, tratto da un ricorso per equa riparazione relativo ad un giudizio che aveva ad oggetto la violazione delle distanze legali, con effettivo pericolo di abbattimento del fabbricato:

Il giudizio presupposto del presente ricorso ha ad oggetto violazione delle distanze legali. Tale giudizio ha procurato notevoli danni alla ricorrente, sia sotto il profilo economico che morale, con conseguenti notevoli patimenti, oltre agli inevitabili e prolungati disagi causati al normale svolgimento della vita familiare: la particolare natura della causa, infatti, ha comportato non solo notevoli pregiudizi economici, ma soprattutto ansia e patema d’animo, derivanti dalla paura di perdere una considerevole parte dell’abitazione a causa del pericolo di parziale abbattimento o arretramento della stessa.

Per quanto riguarda la misura dell’indennizzo, l’art. 2 bis della legge Pinto, così come modificato dal DL 83/2012, stabilisce che il giudice può liquidare una somma di denaro compresa tra un minimo di 500,00 euro ed un massimo di 1.500,00 euro, per ciascun anno,  o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

La frazione di anno, quindi, viene indennizzata soltanto se è superiore ai sei mesi.

Il giudice determina l’indennizzo in base all’art. 2056 cc, tenendo conto dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione del termine ragionevole (cd giudizio presupposto); del comportamento del giudice e delle parti; della natura degli interessi coinvolti; del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, art. 2 bis, comunque, non può essere superiore al valore della causa o al valore del diritto accertato dal giudice: pertanto, l’indennizzo potrebbe essere anche inferiore a 500,00 euro.


Pertanto, se è stata chiesta l’equa riparazione per una causa durata 15 anni, il cui valore era pari a trecento euro, questo sarà il massimo indennizzo liquidabile in base alla riforma della Legge Pinto. 

martedì 26 maggio 2015

La liquidazione dell'indennizzo

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’azione tendente ad ottenere l’equa riparazione è di natura indennitaria e non risarcitoria.

Ciò significa che il diritto all'equa riparazione non richiede né l’accertamento di un illecito né l’esistenza della colpa da parte del giudice che ha gestito un processo durato eccessivamente: esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che testualmente recita: Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole …

Inoltre, per chi volesse approfondire, l’indennizzo liquidato per il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo si distacca dallo schema del risarcimento da fatto illecito, e deve essere correttamente ricondotto nell’ambito delle fattispecie indennitarie compensative di danni prodotti nell’esercizio di attività lecite (Cass. 18/3/2003 n. 3973).

Dall’esame delle pronunce della giurisprudenza di legittimità, emerge una responsabilità di tipo oggettivo del Ministero resistente, il quale ha violato il termine ragionevole di durata del procedimento.

In sostanza, per attribuire tale forma di responsabilità al Ministero, non occorre provarne la colpa ex art. 2043 cc, ma è sufficiente provare il dato oggettivo del tempo in eccesso trascorso dall’inizio del procedimento.

Volendo definire la responsabilità oggettiva in termini molto semplici, possiamo dire che essa sussiste in quei casi  in cui un soggetto può essere responsabile di un fatto illecito, anche se non lo ha voluto compiere volontariamente o lo ha commesso per colpa (imprudenza, negligenza).

Il presupposto della responsabilità del Ministero resistente risiede proprio nella violazione del termine di durata del procedimento, che non è rigidamente predeterminata, ma va desunta anche con ricorso ai criteri indicati nell’art. 2 L. 89/2001: comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla definizione del processo (ad es., CTU).

Infatti, anche le cause complesse e quelle in cui le parti abbiano tenuto un comportamento defatigatorio (che ha contribuito volontariamente ad allungare il processo) soggiacciono alla norma che ne impone la definizione in un tempo ragionevole, in quanto, secondo un principio enunciato dalla Cassazione a Sezioni Unite, il giudice deve fare fronte alla complessità del caso con un più risoluto ed incisivo impegno, ed al comportamento defatigatorio delle parti con l'attivazione dei rimedi all'uopo previsti dal codice di procedura civile.

Dunque, il giudice, nel verificare  l’esistenza del diritto all’equa riparazione, deve soltanto accertare che vi sia stata la eccessiva lungaggine processuale; in aggiunta, si deve tener conto dei criteri indicati nell'art. 2 (comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla definizione del processo), senza peraltro eliminare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass. n. 8600/2005; Cass. SS. UU., n. 1338 del 2004).

Secondo una pronuncia un po’ datata della Corte appello Firenze (25 gennaio 2002), un rinvio ragionevole, in un processo, non dovrebbe superare i tre mesi.

A proposito dei rinvii che, nell’ambito di un processo, siano stati chiesti dalle parti, è necessario evidenziare che, in tema di valutazione della ragionevole durata del processo, non tutto il lasso di tempo intercorso tra una udienza e l’altra può essere imputato al comportamento della parte che abbia chiesto il rinvio, dovendo il giudice adito in sede di equa riparazione verificare se l’entità del rinvio sia ascrivibile anche a concorrenti cause dell’organizzazione giudiziaria (Cass. 30/03/2005 n. 6713; Cass. 7/2/2004 n. 6856).

Per la precisione, ai fini dell'accertamento della durata ragionevole del processo, a fronte di una cospicua serie di rinvii chiesti dalla parte e disposti dal giudice, si deve distinguere tra tempi addebitabili alla parti e tempi addebitabili allo Stato, individuando la durata irragionevole comunque ascrivibile a quest'ultimo, sopratutto quando l'intervallo fra le udienze sia considerevole (Cass. 20233/2008).


Quindi, se una parte ha chiesto un breve rinvio di due mesi per ripetere una notifica non andata a buon fine, ed il giudice rinvia la causa a tre anni, questo periodo eccessivo non può essere attribuito alla parte, bensì allo Stato.  

lunedì 25 maggio 2015

Competenza territoriale


La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al Presidente della Corte d’Appello del distretto in cui ha sede il giudice competente, ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale, a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto si è concluso o estinto, relativamente ai gradi di merito, il procedimento nel quale si è verificata la violazione.

Per semplificare il tutto, basta fare riferimento alla sottostante tabella. Nella prima colonna è indicato il distretto di Corte d’Appello nel quale si è svolto il giudizio durato eccessivamente; nella seconda colonna è indicato il distretto di Corte d’Appello nel quale si deve depositare il ricorso di equa riparazione.

Roma  è Perugia
Perugia  è  Firenze
Firenze  è Genova
Genova  è Torino
Torino  è  Milano
Milano  è Brescia
Brescia  è Venezia
Venezia  è Trento
Trento  è Trieste
Trieste  è Bologna
Bologna  è Ancona
Ancona  è L’Aquila
L’Aquila  è Campobasso
Campobasso  è  Bari
Bari  è Lecce
Lecce  è Potenza
Potenza  è Catanzaro
Cagliari  è Roma
Palermo  è Caltanissetta
Caltanissetta  è Catania
Catania  è Messina
Messina  è Reggio Calabria
Reggio  è Calabria Catanzaro
Catanzaro  è Salerno
Salerno  è Napoli
Napoli  è Roma

Esempio:
Giudizio durato 15 anni nel Tribunale di Pistoia.
Il Tribunale di Pistoia fa parte del distretto di Corte d’Appello di Firenze.
Pertanto, in base alla nostra tabella, il ricorso per equa riparazione va depositato presso la Corte d’Appello di Genova.

La competenza per territorio, ai sensi dell’art. 3 L. 89/01 che richiama l’art. 11 cpp, deve essere determinata con riguardo al giudice di merito dinanzi al quale il procedimento è iniziato (Cass. SS. UU., Ord. n. 6306 del 16/03/2010).

Vediamo un altro esempio pratico, basato su un nostro caso realmente accaduto.

Ricorso per trattamento pensionistico presentato da un soldato in seguito ad un infortunio verificatosi nel 1970.
Il ricorso viene presentato alla Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale, a quel tempo avente unica sede a Roma.

Nel corso degli anni successivi, il procedimento incardinato a Roma viene spostato dinanzi alla Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per la Campania.

Dopo una serie di peripezie, viene proposto appello alla Corte dei Conti Centrale d’Appello in Roma.


In questo caso particolare, poiché il giudizio è iniziato dinanzi alla Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale di Roma, il ricorso di equa riparazione, sempre in base alla nostra tabella, andrà depositato alla Corte d’Appello di Perugia. 

sabato 23 maggio 2015

Come si calcola la durata del processo

Per sapere se possiamo chiedere il risarcimento per la durata eccessiva  di un processo, dobbiamo innanzi tutto inquadrare la precisa durata di esso, cioè capire quando è iniziato e quando è terminato.

Il processo civile si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo o con la notifica dell’atto di citazione.

Il processo amministrativo si considera iniziato con il deposito del ricorso.

Il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato (richiesta di rinvio a giudizio), di parte civile o di responsabile civile, oppure quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.

Non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e del tempo intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa. Quindi, ad esempio, se una parte ha proposto appello dopo cinque mesi dal deposito della sentenza di primo grado, questo periodo di cinque mesi non va considerato nel calcolo del termine per la eccessiva durata del processo.

Il ricorso per equa riparazione deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla conclusione della causa durata eccessivamente: quest'ultima deve essere definita, ossia conclusa con provvedimento passato in giudicato.

Ai sensi dell'art. 4, L. 89/2001, così come modificato dal D.L. n. 83 del 22/06/2012, convertito in Legge n. 134/2012, il ricorso non può più essere proposto anche durante la pendenza della causa durata eccessivamente, come avveniva prima.


Ora, ai sensi della  riforma sopra citata, è necessario attendere non solo la fine della causa durata eccessivamente (cd giudizio presupposto), ma anche il passaggio in giudicato della relativa decisione.

I termini


La violazione si verifica quando la durata di un processo (civile, penale o amministrativo) abbia superato i tre anni, sia pure con le dovute correzioni e temperamenti, eliminando da tale periodo quello addebitabile al comportamento delle parti (ad es., rinvii inutili chiesti dagli avvocati).

Per la precisione, il termine ragionevole si considera rispettato quando un giudizio non abbia superato la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, e di un anno nel giudizio di Cassazione.

In ogni caso, il termine ragionevole si considera comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile (ossia non più soggetto ad impugnazione) nel termine di sei anni (art. 2, comma ter).

Il termine di sei anni, quindi, va riferito alla durata complessiva di tutti i gradi di giudizio; pertanto, se il processo, in tutti i suoi gradi, è durato meno di sei anni, non si ha diritto all’indennizzo.


In ogni caso, sembra che la giurisprudenza delle Corti d’Appello sia orientata nel senso che anche quando il processo, solo in primo grado, è durato sei anni, e le parti non hanno proposto impugnazione, non si ha diritto all’indennizzo.


A conferma di ciò, riportiamo, a titolo di esempio, un estratto di un decreto della Corte d’Appello di Salerno relativo ad un risarcimento per un processo durato sette anni ed un mese solo in unico grado. La Corte ha precisato che: considerato, comunque, che ai fini della domanda il periodo in eccedenza da apprezzare in concreto è di anni 1, stante l’espresso disposto dell’art. 2, comma 2 ter, L. 89/2001, secondo cui si considera comunque rispettato il termine  ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore ai sei anni.